Se mi senti parlare e ti immagini un calice di vino, una fetta di pizza e tanta spensieratezza – la dolce vita insomma – non è curiosità: è ignoranza inconsapevole.
Sediamo attorno ad un tavolo rotondo, tra cappuccini ed espressi, il fumo delle sigarette che disegna ampie spirali nell’aria tiepida per poi disperdersi velocemente. Parliamo e ridiamo, quando un ragazzo ci avvicina, ed in francese esulta: “che bello sentire delle ragazze italiane parlare”. Ci scambiamo uno sguardo annoiato ed alziamo gli occhi al cielo: eccone un altro.
So per certo che, almeno una volta nella vita di ogni italofono in un ambiente nel quale il fattore linguistico lo rende una minoranza, sia capitato di ricevere commenti sul semplice piacere che le persone provano nell’ascoltarlo. Che sia l’accento, o il fatto di esultare in maniera più evidente di altri, ogni movimento e atteggiamento è percepito, da chi guarda e non capisce, come affascinante e misterioso.
Curiosità legittima o predilezione superficiale?
Non fraintendetemi: non intendo negare l’interesse che lingua e cultura possono suscitare nell’animo altrui. La curiosità nei confronti del rituale dell’aperitivo o quello del caffè, così come le differenze tra i molteplici dialetti, non disturba nessuno, anzi, spesso risveglia il sentimento d’appartenenza e di consapevolezza delle proprie origini che molti cercano di dimenticare allontanandosi dalla propria terra.
Tuttavia, quando questo interesse si traduce in una predilezione superficiale per uno stile di vita che non si conosce davvero, il risultato rischia di scivolare nella caricatura: una concezione stereotipata ed un’ignoranza inconsapevole, travestiti da apprezzamento. All’entusiasmo segue la mimica di gesti e parole, che spesso si dividono in: bestemmie ed insulti, perché per questo siamo conosciuti, ed il classico movimento con dita unite e mano che ondeggia, che ci si sente poi in obbligo di correggere e contestualizzare. Perché le cose o si fanno bene, o non si fanno.
Se, oltre ad essere italofoni, si è anche di nazionalità italiana, cosa che in Svizzera non può essere data per scontata, la fantasia si intensifica e lo stereotipo si fa più lampante. La dolce vita prende forma nella mente di chi ti guarda ed invidia l’immagine, che crede veritiera, di cosa significhi vivere in Italia. Non posso, ovviamente, parlare dell’esistenza di quasi 60 milioni di italiani (Istat, 2025); senza dubbio ci saranno quelli che vivono davvero come ci raccontano il cinema e le pubblicità, ma raramente le persone si chiedono quale sia la realtà di tutti gli altri, e per quale motivo più di 6 milioni e 300 mila (Istat, 2025) decidano di vivere, studiare e lavorare all’estero.
Ed è al commento “Ma è talmente bella l’Italia, perché te ne sei andata?”, che ci si rende conto di come una narrazione idealizzata promuove e diffonde sfumature che non si applicano al vero e che rendono ciechi alla reale natura di una cultura e dell’esperienza di vita che per alcuni comporta.
La trappola del Prodotto in Italia
Il marchio Prodotto in Italia è frutto di un’importante migrazione e della volontà di riportare parte della propria cultura in un altro contesto: forse per sentirsi un po’ meno estranei ad altri mondi o per facilitare quella che è, spesso, un’integrazione che porta il marchio della discriminazione. La cucina italiana è, senza dubbio, il risultato più lampante di questo fenomeno, e che ritroviamo ad ogni angolo (Bombi e Orioles, 2014). Pertanto, proprio perché il prodotto di una narrazione ideale è, di fatto, inesistente, è lo scetticismo a cogliere il cliente quando si rende conto che alcuni membri del personale non sono italofoni. Come se questo unico fatto possa rappresentare la veridicità del marchio Made in Italy e l’onestà dell’intento delle persone che vi si identificano.
Il rischio dell’italianità idealizzata è di categorizzare il comportamento delle persone basandosi su delle caratteristiche fasulle e di additarle, poi, come rappresentanti illegittimi di una cultura di cui si ha una visione parziale e romanzata.
Il feticismo dell’italianità, come quello nei confronti di qualunque altra cultura, non trasforma solamente un sano interesse verso “l’altro” in una visione distorta e utopica, o distopica, ma impedisce di riconoscere l’insieme delle dinamiche sociali e politiche che rendono la cultura tale e non riducibile alla litania di “pizza, pasta e mandolino”.
Testo Laura Vanzetti
