Ero. Ero soltanto. Cadeva la neve. Kobayashi Issa

 

 

 

Il vento è freddo, mi punge le guance, e mi supplica di ascoltarlo. Con le orecchie e le mani tese aspetto che mi parli. Le parole si perdono nell’aria.

I miei passi sono lenti mentre percorrono la strada coperta di neve, ancora intoccata, ancora pura. Nessuno finora è uscito nel freddo e l’ha contaminata. Lascia che io sia la prima a coprire questo velo con le mie impronte peccaminose, lascia che conosca il mio nome, che sappia che come lei, anche io sono infine tornata in questo posto che avevo promesso di abbandonare.

Nonostante il villaggio sembri ancora addormentato, alcuni segni di vita diventano pian piano visibili. Sbuffi di fumo dai camini. L’abbaiare di un cane lontano. Luci che lente si accendono nelle finestre. Sembrano guardarmi, le finestre. Sento i loro occhi che mi fissano, che mi giudicano, mentre percorro questa strada infinita. Sono sempre gli stessi occhi, gli stessi che mi guardavano anni fa, quando percorrevo queste strade di corsa, il cuore leggero, ancora bambina. E gli stessi che mi osservavano mentre lasciai il villaggio, promettendo a me stessa, e al vento, e alle pietre sotto di me, che non sarei più tornata. Come faccio ad andare avanti ora, sapendo di non aver mantenuto la promessa? Come faccio a vivere sapendo che questi stessi muri che mi hanno fatto soffrire sono ancora in piedi, che il villaggio sembra essere identico a quando l’ho lasciato?

Il vento mi accarezza i capelli, comprensivo. Nel suo abbraccio mi lascio consolare, mi permetto di perdonarmi. È l’unico modo per andare avanti. La destinazione è ora nel mio campo visivo, appena dopo il grande prato, solitamente così verde, oggi bianco e infinito. Appena dopo il ponte. Un edificio. Un’abitazione. Una residenza, una dimora. Un alloggio? Qualunque cosa sia, non più una casa. Non più la mia casa. Quando ha smesso di esserlo? È stato quando l’ho lasciata, convinta di non tornarci? O molto prima, quando ho capito che non sarebbe riuscita a proteggermi, nonostante fosse il suo compito farlo? È stata mai casa mia se nelle sue mura mi sono sempre solo sentita confinata?

Il vento qui mi parla, e così i muri, come in altri posti non hanno mai fatto.

Sono arrivata al ponte, ed è qui che infine i miei piedi si fermano, incapaci di proseguire. Interminati spazi. Profondissima quiete. Infinito silenzio. Il fiume che scorre sotto di me vaga lento e taciturno. Per i diciassette anni che ho vissuto qui, l’acqua ha continuato il suo corso, senza mai smettere. Come riesce a sopportarlo? Come riesce ad avanzare, a farsi la sua strada anche quando una strada non c’è, a prendere il suo spazio, prendere ciò di cui ha bisogno, inesorabilmente?

Vorrei parlargli, vorrei chiederglielo. Eppure l’acqua non mi conosce. L’acqua che passava qui dieci anni fa è diversa da quella che scorre ora. Nel suo moto costante, ha trovato un modo per andarsene e non tornare più. A meno che non risiede nella neve che, sotto ai miei piedi, attende paziente la mia decisione.

La casa è di fronte a me. Delle quattro finestre che riesco a vedere, una sola è illuminata. Mi osserva, silenziosa ma persistente. Come la luce di un faro mi ha visto arrivare ancora prima che io riuscissi a vedere lei. Non posso più nascondermi, ma non penso di aver mai potuto farlo.

Dove posso andare ora? Prendimi per mano, ti imploro, e guidami tu.

Il vento mi accarezza, ora muto anche lui. Non può più offrirmi niente se non un leggero incoraggiamento, una consapevolezza che rimarrà al mio fianco, qualunque decisione io prenda. L’acqua sotto ai miei piedi scorre, ignara. La neve aspetta, i muri ascoltano. E faccio quindi un passo nell’unica direzione possibile, verso la luce solitaria.

 

Text Valentina Tobler

Illustration Alfred Sisley, La Neige à Louveciennes (Wikimedia Commons)